OMELIA
Il sacerdote ci aiuta a comprendere meglio la parola di Dio
II DOMENICA DOPO LA DEDICAZIONE 3 Novembre 2019
Dio non ci chiede solo di lavorare con lui per costruire il suo Regno, non ha solo voglia di faticare insieme a noi per
costruire una società più umana, dove gli uomini imparano a vivere come Gesù nella logica del servizio, del perdono,
dell’accoglienza, del prendersi cura di chi ha bisogno, ma ha una voglia matta anche di godere insieme a noi. Nelle
due parabole precedenti a quella che abbiamo appena ascoltato, Gesù paragonava il Regno di Dio ad una vigna nella
quale Dio chiama tutti a lavorare insieme a lui, mentre in quella che ci propone oggi la liturgia, Dio invita a mangiare
con lui nella sua grande, grandissima sala da pranzo, tanto grande da starci il mondo. Già lo profetizzava Isaia secoli
prima di Gesù, come abbiamo ascoltato nella lettura: “il Signore preparerà un banchetto per tutti i popoli, di grasse
vivande, di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati”. Se il Signore sente l’esigenza che noi ci associamo a lui
nel lavoro, qui sembra mendicare che noi ci associamo a lui nel banchetto. Evidentemente quella del banchetto è
una metafora che vuole indicare quello che Dio fa per noi. Cioè, a noi potrebbe apparire faticoso lavorare nella vigna
del Signore, costruire con lui il suo Regno portando i frutti della carità, preoccupandoci degli altri. In realtà non è
così. Quello che Gesù vuole farci vedere, con questa parabola, è che noi dobbiamo fare agli altri quello che Dio ha già
fatto per noi: Dio ci chiama alla gioia, alla felicità, a realizzare la nostra vita, e questa gioia si trova nell’amore
corrisposto, nel donare agli altri l’amore col quale ogni uomo è amato da Dio fin dall’inizio: il suo amore ci precede.
Qui Gesù paragona Dio a un re che vuole fare un banchetto di nozze per suo figlio. Cosa c’è di più comprensibile, per
esprimere la comunione, se non l’immagine delle nozze, dove due amanti si dichiarano amore eterno? Vuol dire
allora che il progetto di Dio è che gli uomini vivano in comunione tra loro, e questa comunione altro non è che il
riflesso della comunione d’amore che Dio (lo sposo) vuole vivere con ciascuno di noi. Eppure, nonostante questo,
ecco il dramma, un dramma che accompagna la storia dell’umanità fin dall’inizio, e che prosegue anche oggi, e non
c’è bisogno di guardare alle notizie di cronaca nera o delle guerre che continuano nel mondo, basta anche limitarsi
alle piccole guerre di ogni giorno che ci sono in una comunità, in una famiglia, tra amici e parenti, vicini di casa o
colleghi di lavoro. Il dramma è che gli uomini se ne fanno un baffo di questo invito al banchetto, non gli interessa, lo
rifiutano. Tutto è pronto, venite alle nozze, dice il re. Cioè, l’amore con cui noi siamo amati da Dio è totalmente
gratuito, è disponibile, non viene chiesto un contributo, non va meritato, è gratis, occorre solo sedersi a tavola.
Invece no. Gli invitati pensano di essere autosufficienti, di bastare a sè stessi, non se ne curano, preferiscono
dedicarsi ai loro affari, coltivare il proprio orticello, sto bene io con le mie cose, la mia vita, il mio lavoro, e questo è
sufficiente, gli altri non rompano le scatole: altro che costruire il Regno di Dio, io voglio costruire il mio di regno,
fatto a mia misura. Alcuni servi mandati dal re per invitare tutti alle nozze furono addirittura insultati e uccisi,
prosegue Gesù nella parabola, e si riferiva ai profeti che prima di lui avevano detto le stesse cose e vennero fatti
fuori, perché chi va controcorrente e cerca la comunione viene deriso o eliminato, come poi accadrà allo stesso
Gesù. E questo resta un mistero: perché noi uomini, con la nostra libertà, preferiamo il male al bene, pur
desiderando il bene? Forse proprio perché confondiamo il bene con il male e pensiamo che il male che compiamo sia
un bene. Ed è così che si comprende l’epilogo tragico di questa parabola, col re indignato, amareggiato e pieno d’ira
che ordina ai suoi soldati di uccidere quegli assassini e di bruciare le loro città. Interpretare questa reazione
pensando all’ira di Dio che si abbatte su coloro che rifiutano il suo amore sarebbe assurdo, perché contraddirebbe
l’immagine del Dio unicamente buono che Gesù ha rivelato, un Padre che ama tutti i suoi figli, mentre questo Dio
sembrerebbe un assassino. Qui Gesù si riferisce alla sorte di Gerusalemme che aveva rifiutato i profeti, che metterà a
morte lo stesso figlio di Dio, e che subirà la stessa sorte, venendo distrutta dall’esercito romano, per indicare che chi
semina violenza viene travolto dalla violenza. Ma Dio non agisce così: Dio odia il male, non chi lo fa, ed è il male che
Dio distrugge, la sua ira è contro il male. Dio perdona il peccatore, non il male che compie il peccatore. Tanto è vero
che il re non si arrende, ma manda i suoi servi ai crocicchi delle strade, dove c’è più gente, quasi a costringere tutti,
cattivi e buoni (addirittura prima i cattivi) ad entrare per riempire la sala delle nozze: è l’entusiasmo di Dio che mai si
arrende perchè, come dicevo all’inizio, Dio ha come unico desiderio che tutti partecipino alla sua gioia, e questa è la
continua missione della Chiesa: portare a tutti l’amore di Dio che nessuno esclude. Tranne uno, tranne chi non ha
l’abito nuziale, cioè tranne chi, ancora una volta, misteriosamente, continua a non accettare un amore così grande, a
non sopportare che Dio ami in modo così smisurato. Anche qui, vedete, sembrerebbe che Gesù stia dicendo che Dio,
di fronte a chi non accetta il suo amore, lo manda all’inferno: “legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre;
là sarà pianto e stridore di denti”. Non è così, ma il contrario: Dio ci salva dall’inferno, ma non può nulla contro la
nostra libertà. Il pianto e lo stridore di denti erano immagini adoperate dai profeti per indicare il fallimento della vita.
L’inferno comincia ora quando uno pensa, come diceva Sartre, che l’inferno siano gli altri. Chi rifiuta l’amore di Dio, si
autocondanna al fallimento della propria vita. Tutti sono chiamati a realizzare il sogno di Dio, ma pochi sono gli eletti,
cioè quelli che ci stanno. Noi ci stiamo?
Don Marco Rapelli